Omaggio a Umberto Cibien: il mio amico fraterno

Umberto Cibien

Voglio ricordarti così, come quando eravamo giovani e forti, quando le nostre menti viaggiavano alla velocità della luce su teorie delle quali solo in poche persone al mondo sono state in grado di compiere le nostre evoluzioni! Come acrobati eravamo in grado di far compiere alle nostre intelligenze dei voli sui più complicati concetti, come anime gemelle giocavamo sui campi della conoscenza! Adesso hai calcolato con estrema precisione l’integrale della gaussiana della parte concernete la tua permanenza su questo pianeta, lo hai fatto per liberarti in una geodetica esistenziale dove neanche i limiti della libertà saranno in grado di contenere il tuo spirito. Sarai sempre con me, nella mia mente e nel mio cuore. Adesso è grande il mio dolore, ma lo saprò superare! Torneremo ancora a giocare! Ciao Umberto Cibien!

Hai scritto con lucida determinazione l’ultima equazione, lo hai fatto con un processo mentale di logica estrema, e con una facilità disarmante, applicando quanto espresso dalla “novacula Occami”, facendo esattamente ciò che tutti si aspettavano che tu facessi, per dimostrare concretamente ciò che tu sapevi benissimo era assurdo fare!
Hai applicato alla lettera, nella realtà della vita quanto asserito dalla logica dialeteica del “Paradosso del diniego“.
Hai accettato una imposizione: «Accettazione. Un soggetto dovrebbe accettare qualcosa se c’è una buona evidenza della sua verità.

Hai rifiutato al contempo l’imposizione stessa «Rifiuto(U): un soggetto dovrebbe rifiutare qualcosa se c’è una buona evidenza della sua non-verità, a meno che ci sia anche una buona evidenza della sua verità»
Hai voluto dimostrare l’incosnistenza delle verità scientifiche sbandierate dalla logica del potere.
Hai preso la locomotiva, quella che aveva costruito tuo padre, perfettamente funzionante anche se in miniatura, e la hai lanciata con con forza cieca di baleno su quel binario che ti avrebbe condotto a far superare ogni possibilità di interpretazione, sin anco all’ineffabilità di una possibile giustificazione degli eventi! E magari lo hai fatto cantando quella nostra canzone di tanti anni fa.

Io sono ancora qui, a cantare “L’avvelenata” mentre cerco di capire cosa ancora mi resta da fare!
Di sicuro, ancora una volta, mi hai fatto meditare e lo hai fatto come solo tu sapevi fare, plasmando la realtà con la teoria, come se fosse qualcosa di modellabile, come facevi con le tue creazioni, con gli “oggetti a cui davi forma! Così sono andato a rispolverare testi antichi e testi moderni, per cercare di capire il senso della poesia racchiusa nell’esistenza e ho trovato le equazioni, quelle che ti hanno portato a questa decisione!
“Nella storia della filosofia troviamo numerose teorie secondo le quali esistono cose aldilà della nostra abilità di descrivere e concettualizzare; cose che sono ineffabili”.
Tuttavia, anche solo dire che ci sono cose di questo tipo è un modo di descriverle/concettualizzarle; è un modo di parlarne. Dunque, si cade nella contraddizione.
Heidegger ritiene che l’Essere sia coinvolto negli aspetti più fondamentali della nostra vita quotidiana, tanto da affermare poeticamente che «L’essere è l’etere in cui l’uomo respira» (M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana).
L’Essere è sia interpretabile come oggettività fisica che metafisica, quindi non solo come interpretazione di “stato”: il concetto di Essere (met) è semplicemente “l’essere un’entità” di un’entità.
Usando «oggetto» come sinonimo di «entità», possiamo dire che l’Essere (met) è l’oggettualità di un oggetto.
Quest’idea è stata interpretata a sua volta in due modi.
Nel primo caso, l’Essere (met) viene concepito in termini di dipendenza metafisica: gli oggetti sono oggetti a causa dell’Essere (met).

In altre parole, “l’essere un’entità” di ciascuna entità è fondato nell’Essere (met) o, in maniera equivalente, è metafisicamente dipendente dall’Essere (met) dove «y è fondato in x» – o «x dipende metafisicamente da y» – significa «x fa di/rende y un’entità».

Nel secondo caso, invece, l’Essere met viene spiegato facendo ricorso ad un’analogia con Meinong.
In particolare, Priest sostiene che, come per l’Aussersein di Meinong, l’Essere (met) di Heidegger è “l’essere un’entità” di un’entità, a prescindere dal suo statuto ontologico.
Allargando ulteriormente questa analogia, Priest sostiene che l’Essere (met) equivale all’avere Sosein, ovvero, nei termini di Meinong, a possedere delle proprietà.
Dato che qualcosa ha Essere (met) se e solo se è un oggetto e dato che, almeno nella prospettiva di Meinong, qualcosa è un oggetto se e solo se ha delle proprietà, allora qualcosa ha Essere (met) se e solo se possiede delle proprietà.
Seguendo McDaniel (2016, 2017), il senso generico in cui tutte le entità hanno Essere (met) può essere espresso da una quantificazione non ristretta, mentre uno specifico modo dell’Essere met corrisponde ad una quantificazione ristretta il cui dominio è una sottoclasse propria del dominio della quantificazione non ristretta. Inoltre, ogni quantificatore ristretto varia su tutte e sole quelle entità che condividono lo stesso modo dell’Essere (met).

Secondo Moore (2012)., la metafisica è da intendersi come il tentativo più generale di dare senso alle cose, e l’Essere (met) di Heidegger è esattamente ciò che ci permette di farlo.
Inoltre, è importante specificare che, secondo Moore, quella di “senso” è una nozione vaga che può stare per «il significato di qualcosa, lo scopo di qualcosa, o la spiegazione di qualcosa» (A. Moore, The Evolution of Modern Metaphysics: Making Sense of Things, Cambridge University Press, 2012, p. 5).
Infatti, quando l’Essere (met) viene inteso come intelligibilità, esso dà senso al fatto che le entità sono intelligibili.

Quando l’Essere met è inteso come l’oggettualità di un oggetto, esso dà senso al fatto che gli oggetti sono oggetti. Infine, quando l’Essere (met) è inteso come modi dell’essere, esso dà senso al fatto che le entità sono in modi differenti.

Dunque, qualsiasi cosa sia l’Essere (met) , esso non è un’entità.
Secondo questa visione, anche conosciuta come tesi della “differenza ontologica”, l’Essere (met) non può essere una sedia, una stella, un numero o una qualsiasi altra entità, poiché esso è puramente trascendente: l’Essere (met) trascende il reame antico, ovvero l’insieme di tutte le entità.
Quindi “L’essere”, in quanto tema fondamentale della filosofia, non è un genere dell’ente, e tuttavia riguarda ogni ente.
La sua «universalità» è da ricercarsi più in alto.
L’essere e la struttura dell’essere si trovano al di sopra di ogni ente e di ogni determinazione possibile di un ente.

L’essere è il transcendens puro e semplice.
(Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 54).


Egli però ritiene che un’asserzione trasmetta contenuto solo quando è in grado di indicare le caratteristiche dell’entità di cui parla.
Ora, il modo con cui abbiamo a che fare con le entità quando ne parliamo tramite asserzioni è molto astratto, basti pensare ai concetti di “Entità trascendentali”.
Il parlare, che è un atto intenzionale, è sempre diretto verso un’entità perché tutte le attività intenzionali sono dirette verso entità, ovvero verso gli oggetti dell’intenzione.
L’Essere (met) non è un’entità e, siccome parlare è sempre parlare di un’entità, allora non è possibile parlare dell’Essere (met).

Tuttavia, noi ne parliamo, pertanto, l’Essere (met) deve essere un’entità.
La situazione che si ottiene è rappresentata in modo chiaro dal seguente argomento:


[1] L’Essere met non è un’entità
[2] Tutto ciò di cui parliamo è un’entità
[3] Noi parliamo dell’Essere met
[C] L’Essere met non è un’entità e l’Essere met è un’entità.

La premessa [1] corrisponde alla tesi della differenza ontologica.
La premessa [2] cattura l’idea di Heidegger secondo cui ogni volta che parliamo di qualcosa parliamo di un’entità.
La premessa [3] esprime l’evidenza fenomenologica che di fatto noi parliamo dell’Essere met .
Infine, da queste tre premesse segue correttamente che l’Essere (met) non è un’entità e che, allo stesso tempo, lo è. Questa conclusione, [C], può essere chiamata il “paradosso dell’Essere met ”.

Non ha più senso parlare di “Essere (met)”, con le accezzioni del linguaggio comune! In quanto stato temporale, Umberto è stato, Umberto è, umberto sarà!
In altre parole, la proposizione «Essere (met) » anche in questo caso è indeterminata (non ha alcuna determinazione) ed è determinata (possiede almeno una determinazione)! Umberto è stato, è, e sarà!
L’evento, quello che Heidegger chiama (Ereignis) e questo evento in particolare, è profondamente connesso alla questione del Seyn, poiché è «la prima risposta alla domanda dell’essere»
Heidegger scrive che «l’estrema decisione [riguarda la] verità dell’Essere [Seyn]» (Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., §45).
Questa “decisione cruciale” è esattamente quella che determina l’essere essenziale del Seyn, collegando l’evento e il Da-sein.
Ma, allora, cosa riguarda questa scelta? Tra quali opzioni l’essere umano dovrebbe decidere? L’idea più immediata è che la decisione sia tra uno dei due congiunti della conclusione contraddittoria [C].
Per vedere perché, ricordiamo che, secondo la conclusione [C], il Seyn non è un’entità (primo congiunto) ed è un’entità (secondo congiunto).
Se adottiamo PNC (Principio di Non Contraddizione), la conclusione [C] è inaccettabile.
Quindi, sarebbe naturale pensare che, per evitare la contraddizione, l’essere umano debba decidere tra una della due opzioni seguenti: o il Seyn non è un’entità, o il Seyn è un’entità. In questo caso, «l’essenza della decisione» è intesa come la scelta tra «l’essere oppure [in modo esclusivo] il non-essere» dello stesso Seyn (Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., §20).

L’essenza della decisione – essere o non essere – si può determinare solo partendo dal suo presentarsi essenziale.
Decisione è decisione nell’orizzonte di un aut-aut.
Ma con ciò si anticipa il tratto che caratterizza la decisione come tale.
E’ vero che niente e nessuno ci forza a compiere questa scelta.
L’essere umano, come esercizio radicale di libertà, può semplicemente decidere di non decidere.
Heidegger suggerisce che decidere di non decidere significa sostenere entrambi i congiunti contraddittori della conclusione [C].
In altre parole, secondo questo nuovo radicale inizio della filosofia, il Seyn diventa accessibile come risultato della decisione umana di accettare la sua natura inconsistente.
Nell’evento, ed in particolare in questo evento, il Seyn è e non è; è un’entità e non è un’entità.
Il dialeteismo è una visione certamente eterodossa ma che, se sviluppata sulla base delle risorse della moderna logica paraconsistente, diventa coerente e razionale, soprattutto nel caso venga applicata a situazioni come questa!
Proprio per quanto sopra esposto anche in questo caso niente è, e niente potrebbe essere, letteralmente sia vero che falso!
Popper osservò, (1969) nella propria critica alla “logica dialettica” di Hegel e Marx, che argomentare contro chi accetta contraddizioni è metodologicamente complicato.
Aristotele aveva sostenuto nella “Metafisica” che, quando qualcuno dice cose come «Per qualche A, A e non-A sono entrambe vere» (il cattivo era, in quel caso, Eraclito), dovremmo chiederci se pensa veramente ciò che dice.
Anche i seguaci contemporanei di Aristotele si chiedono se, quando dice cose simili, il dialeteista – così oggi chiamiamo chi accetta contraddizioni: cf. Berto (2007), Berto e Priest (2013) stia truccando il significato di «non», o quello di «vero»:
Quando i filosofi dibattono sul contenuto di concetti fondamentali, la discussione, com’è noto, va incontro a difficoltà metodologiche.
Possiamo approcciare la questione mediante quel che è stato chiamato il “problema dell’esclusione” per il dialeteista.
In bocca al dialeteista, ~A può non escludere A, dato che per lui sia A che ~A possono esser veri.
Ache «A è falso» o «A non è vero» non sono di grande aiuto: potrebbero non escludere che A sia vero.

Priest ha proposto un approccio pragmatico: il dialeteista può escludere cose “rifiutandole”.

Io prospetto la possibilità che il dialettista sia anche in grado di accettare cose denegabili!
Prendiamo comunque il rifiuto come lo stato che un soggetto, k, può avere verso un enunciato – o piuttosto, verso la proposizione espressa.
Il rifiuto è l’opposto dell’accettazione o credenza (o, di un grado di credenza al di sopra di un certo valore): che k rifiuti qualcosa vuol dire che k rigetta senz’altro la credenza corrispondente.
Gli atti linguistici che manifestano accettazione e rifiuto sono, rispettivamente, l’asserzione e il diniego.
La coppia mentale e quella linguistica possono divergere in aspetti importanti, ma possiamo considerarle insieme per i nostri scopi. Prendiamo gli operatori pragmatici «⊢ k » e «⊣ k » («k accetta/asserisce (che)», «k rigetta/è in diniego (che)»).
Ora, il rifiuto/diniego vien spesso inteso come riducibile all’accettazione/asserzione della negazione via la cosiddetta riduzione di Frege-Geach:

(FG) ⊣ k A = df ⊢ k ~A.

FG esprime la posizione dominante sulla connessione fra accettazione/asserzione, rifiuto/diniego, e negazione:
Negare un enunciato è affermarne un altro, noto come la negazione o il contraddittorio del primo.
Dopotutto, il diniego è semplicemente la credenza nella negazione di una proposizione

Supponiamo però che A sia una dialeteia.
È un principio fondamentale della razionalità che noi si debba accettare qualcosa quando abbiamo buona evidenza che sia vero.
Allora dobbiamo accettare ~A senza per questo rigettare A: se ci sono dialeteie, FG fallisce.
Ciò rende difficile condurre ed esprimere le nostre discussioni su cosa si dovrebbe o non si dovrebbe escludere: rifiuto e diniego non ci consentono di dire tutto quel che ci occorre dire.
Se il rifiuto non precludesse l’accettazione, ossia se k potesse accettare e rifiutare lo stesso enunciato, simul, sub eodem, saremmo al punto di partenza:
Chi rifiuta A non può accettarlo allo stesso tempo più di quanto una persona possa simultaneamente prendere e perdere un autobus, o vincere e perdere una partita a scacchi.
Un altro strumento a volte proposto come dispositivo per esprimere l’esclusione è arrow-falsum, → ⊥ , dove è un condizionale che supporta il modus ponens e è o implica qualcosa di inaccettabile anche per il dialeteista.
Sia Tr un predicato di verità trasparente per il linguaggio in questione, ossia tale che per ogni A, Tr〈A〉 e A (dove 〈A〉 è il nome di A) sono sostituibili in tutti i contesti (non opachi).

Secondo la teoria di Beall (2009) (chiamata BXTT = Teoria della verità Trasparenteed in particolare nella semantica della logica paraconsistente-dialeteica di base LP, arricchita con un che supporta il modus ponens, possiamo prendere Tr come governato dalle regole di introduzione ed eliminazione:
(T-In) A ⊨ Tr〈A〉
(T-Out) Tr〈A〉 ⊨ A.

Ora, supponiamo che ⊥ = (∀)xTr(x).

Il dialeteista potrebbe tentare di escludere A asserendo “A → ⊥”, A va rigettato), perché l’affermazione trivialista che tutto è vero è troppo anche per lui (anche se magari non è troppo per “chiunque”: il trivialismo è stato in effetti difeso, in modo interessante, in letteratura: cf. Kabay (2010)).
Per il dialeteista, essere non vero non è avere una caratteristica incompatibile con la verità.
Abbiamo la nostra vecchia contraddizione, che coinvolge la negazione.
Ma non abbiamo la corrispondente contraddizione assoluta, o istanza dell’inaccettabile AC, ossia Tr〈L〉 & Tr〈L〉.
L’esclusione va presa come una nozione primitiva, di portata metafisica generale.
Un’ipotesi di esclusione è, semplicemente, sempre ritirata quando vien refutata.
Supponiamo che «•» stia per la nostra relazione di esclusione primitiva, che possiamo interpretare su coppie di caratteristiche o proprietà: «P • Q» va letto come «le proprietà P e Q sono incompatibili», o «Avere P esclude avere Q», o «Esser P esclude esser Q».

Per il dialeteista, in generale,
Tr〈~A〉 ⊭ Tr〈A〉
~Tr〈A〉 ⊭ Tr〈A〉.
Ossia: falsità e non-verità non appartengono a {P| P • Truth}.
Questo ragionamento apre dunque le porte ad un concetto: “il paradosso del diniego“.
Il diniego è un vero e proprio atto linguistico e il rifiuto, invece, un atteggiamento proposizionale (o stato cognitivo).

Al diniego corrisponde come atto linguistico duale quello dell’asserzione; al rifiuto corrisponde come atteggiamento proposizionale duale quello dell’accettazione (o credenza).
Ora, è ampiamente riconosciuto che questi atteggiamenti proposizionali siano strettamente collegati agli atti di diniego e asserzione, secondo questa relazione: accettazione e rifiuto sono, rispettivamente, atteggiamenti necessari agli atti di asserzione e diniego: si pensa che non sia possibile denegare (asserire) A senza averlo rifiutato (accettato).
Tanto basti per la relazione tra diniego (asserzione) e rifiuto (accettazione).
Ma, chiediamoci: in che rapporto stanno questi con la negazione?
Diniego e rifiuto vengono, definiti sulla base della negazione (e dei loro duali), che viene ad assumere un ruolo prioritario rispetto ad essi.

Tale posizione, tuttavia, è stata messa in discussione.
Tra i suoi detrattori, una delle voci più importanti è quella dialeteista.
Per comprendere le ragioni dell’opposizione dialeteista alla denial equivalence bisogna partire da un’importante critica mossa al dialeteismo, che riguarda l’esclusività della negazione.
La negazione (per come viene classicamente intesa) è esclusiva nel senso che la verità di A esclude la verità di ¬A, e viceversa: un enunciato e la sua negazione sono pertanto incompatibili.
Tuttavia, nella concezione dialeteista esistono contraddizioni vere: dunque, un enunciato e la sua negazione sono compatibili.
Per questa ragione, la negazione adottata dal dialeteista non è esclusiva.
Ora, però, se si ammette che l’uso della negazione logica nel linguaggio naturale tolleri la verità di qualche contraddizione, la stessa critica dialeteista del Principio di Non Contraddizione (PNC) sembra non riesca ad esprimere quel che vorrebbe.
Dal momento che l’asserzione e il diniego sono gli atti che esprimono questi atteggiamenti, ereditano anch’essi l’esclusività: non è possibile asserire e denegare contemporaneamente uno stesso enunciato. (ammenoché non vi sia una terza ragione occulta, un atto dimostrativo, qualcosa di controintuitivo che sfata ogni possibilità di analisi logica, ivi compresa quella dialeteica, quello che forse voleva dimostrare nei fatti Umberto!)
Dunque, il diniego dialeteista, così come anche quello teorizzato dalla visione ortodossa, è esclusivo.
Per riassumere: secondo Priest è possibile asserire un enunciato e la sua negazione, ma non è possibile asserire e denegare lo stesso enunciato.

Fig. 1: rappresentazione della posizione di Priest.
Secondo il dialeteismo, ci sono enunciati che sono sia veri che falsi.
Dunque, ci sono enunciati, ad esempio A, che sono sia V-evidenti (vi è un’evidenza a favore della loro verità) che
F-evidenti (vi è un’evidenza a favore della loro falsità).
Tali enunciati — i.e. dialeteie — sono asseribili, ma non denegabili, e lo stesso vale per quegli enunciati che sono solo
V-evidenti, ad esempio ¬B. Invece, gli enunciati che sono denegabili sono quelli solo F-evidenti, come B.

A titolo esemplificativo, si può rifiutare/denegare enunciati come «Il trivialismo è una tesi filosofica corretta» o «Necessariamente, la consistenza è una proprietà desiderabile per ogni teoria logica», mentre si possono accettare-asserire enunciati come «L’enunciato del mentitore è vero», «L’enunciato del mentitore è falso» e «Ogni contraddizione è falsa».
Si può dunque esprimere un enunciato: il diniego di A esprime il fatto che A è assunto come solo falso, mentre il diniego di ¬A esprime che A è assunto come solo vero.
Questo uso del diniego suggerisce una teoria della deduzione naturale in cui venga incorporata l’esclusività negli atti linguistici dell’assumere e del concludere, in modo che risulti estranea al significato del connettivo logico della negazione.
Questi atti possono essere intesi in un duplice modo: quello ordinario e quello esclusivo. Assumere un enunciato in un modo ordinario corrisponde a supporlo almeno vero, mentre assumerlo in modo esclusivo corrisponde a ritenerlo solo vero.
Similmente, provare un enunciato in modo ordinario significa provare che è (sotto certe assunzioni) almeno vero, mentre provarlo in modo esclusivo significa provare che è solo vero.
Ne segue che le prove di A e ¬A in modo esclusivo sono incompatibili, nel senso che, in principio, conducono inevitabilmente alla refutazione di qualche assunzione da cui dipendono.
Il dialeteista ritiene esista almeno una coppia di enunciati A e ¬A entrambi asseribili, A risulta contemporaneamente asseribile e denegabile.
Dunque, il dialeteista che intenda fare ricorso alla nozione esclusiva di diniego non può definirla in funzione della negazione, e deve assumerla come primitiva, sostenendo come questi concetti — i.e. negazione e diniego — siano indipendenti.

In sintesi, un enunciato A è (almeno) vero se 1 ∈ ν(A), è (almeno) falso se 0 ∈ ν(A); A è solo vero se 0 ∉ ν(A), è solo falso se 1 ∉ ν(A).
Questa semantica viene successivamente estesa in modo analogo alla semantica di FOL = (First Order Logic).
Per semplicità, assumiamo che in L ci sia un nome per ogni oggetto del dominio di quantificazione, D.
La funzione di valutazione ν assegna a ogni costante individuale un membro di D e a ogni predicato unario P due sottoinsiemi di D: l’estensione P + e l’anti-estensione P – . P + e P – possono avere intersezione non-vuota
e sono tali che P + ∪ P – = D. Allora:

ν(Pa) = {1} se a ∈ P + – P –
ν(Pa) = {0} se a ∈ P – – P +
ν(Pa) = {0,1} se a ∈ P + ∩ P –

Per i predicati con arietà >1 l’estensione è simile. Per l’identità abbiamo:

(=) + = {(a,a): a ∈ D}

mentre (=) – è arbitrario, col solo vincolo che (=) + ∪ (=) + = D.
Le clausole per i quantificatori universale ed esistenziale sono analoghe, rispettivamente, a quelle della congiunzione e della disgiunzione.
Infine, estendiamo la semantica di LP introducendo una nuova nozione di modello e, con essa, la relazione di conseguenza semantica.
Sia S un insieme di formule di L, alcune delle quali stellate (i.e. segnate dalla stella ∗).
Un modello M di S è una interpretazione in LP in cui tutte le formule di S sono vere e quelle stellate sono solo vere.

Una formula A (una formula stellata A ∗) è conseguenza semantica di un insieme S di formule potenzialmente stellate, in simboli S ⊨ A(∗), se è vera (solo vera) in ogni modello di S.
Siano A, B, C, … formule del linguaggio L, e sia Γ un insieme finito di formule potenzialmente stellate.
Un sequente è un’espressione che possiede la forma seguente:

Γ ⊢ C(∗)

Da leggersi: «Dalle assunzioni in Γ si inferisce la conclusione C (in modo ordinario o esclusivo)».
Le formule non stellate appartenenti a Γ sono assunte in modo ordinario (sono assunte come almeno vere), mentre quelle stellate sono assunte in modo esclusivo (sono assunte come solo vere).
In modo analogo, anche la conclusione C può essere derivata in modo ordinario o esclusivo.

Si rimanda l’approfondimento alle regole d’inferenza fondamentali di DLEAC (Logica Dialeteista con Assunzioni e Conclusioni Esclusive).

Il diniego dialeteista di A è più forte dell’asserzione di ¬A: denegare A non corrisponde ad asserire ¬A, poiché A e ¬A possono essere entrambi correttamente asseribili e, volendo mantenere l’esclusività del diniego, A non può essere sia asserito che denegato.
Per questa ragione, come osservato in Littmann e Simmons (2004), dal momento che il dialeteista adotta una relazione non-standard tra asseribilità e diniego, deve fornire una teoria che non solo descriva in modo soddisfacente queste nozioni, ma che sia anche capace di far fronte ad eventuali paradossi che sono generati a partire da esse.
Dalla nozione dialeteista di diniego non si possono generare paradossi semantici.
Il piano semantico va considerato come prioritario rispetto a quello pragmatico.
Più chiaramente: le nozioni pragmatiche, come gli atti di diniego e asserzione, o gli atteggiamenti proposizionali di accettazione e rifiuto, dipendono dalle (sono definiti in termini delle) nozioni semantiche di verità e falsità, ma non vale il contrario.
D’altronde, un enunciato è vero (falso) a prescindere dal fatto che sia accettabile (rifiutabile)
o asseribile (denegabile), mentre che un enunciato sia accettabile (rifiutabile) e asseribile (denegabile) dipende proprio dalla (evidenza della) sua verità (falsità).
Per un dialeteista, un enunciato potrebbe essere asseribile anche nel caso ci siano evidenze della sua falsità.
Infatti, questo enunciato potrebbe essere una dialeteia, e dunque anche vero (oltre che falso).
Allora, se ci fossero evidenze anche in favore della sua verità, ovvero se ci fossero evidenze a sostegno del fatto che l’enunciato sia una dialeteia, nel quadro dialeteista l’enunciato risulterebbe asseribile.

Una dimostrazione matematica o una prova empirica rappresentino due esempi di buone evidenze per la verità (o la falsità) di un enunciato. Tuttavia, questa nozione rimane abbastanza vaga e per lo più basata su una sua comprensione intuitiva. (Ma è quello che ha probabilmente messo in pratica Umberto!)

Ora, una proposta piuttosto semplice e naturale è quella di definire accettazione e rifiuto nel modo seguente:
Accettare. Un soggetto dovrebbe accettare p se c’è un’evidenza della sua verità migliore rispetto all’evidenza della sua non-verità.

Rifiutare. Un soggetto dovrebbe rifiutare p se c’è un’evidenza della sua non-verità migliore rispetto all’evidenza della sua verità.


Adottando questa strategia, l’esclusività di accettazione e rifiuto dipende dalla possibilità di confrontare le evidenze e di stabilirne un ordine stretto: ovvero, che date due evidenze sia sempre possibile individuarne una migliore – di maggior valore.
A questo punto, allora, la questione si sposta sui criteri di valutazione di un’evidenza, e diventano importanti domande come: esistono tali criteri? Ammesso che esistano, sono essi in grado di determinare la superiorità di un’evidenza rispetto ad un’altra in qualsiasi comparazione di evidenze si faccia?
Riassumendo: se si chiarisse la nozione di buona evidenza, riuscendo a fornirne una teoria che stabilisca un metodo per ordinare strettamente le evidenze in funzione del loro valore (della loro bontà), assumendo Accettare* e Rifiutare* si otterrebbe nuovamente l’esclusività delle nozioni di accettazione e rifiuto (e di asserzione e diniego), col vantaggio di non incorrere in un’asimmetria difficilmente giustificabile.
Che questo si riesca a fare, però, è molto discutibile.
Pensiamo, infatti, che per quanto sia talvolta possibile stabilire quali evidenze contano più di altre, ci siano casi vaghi (in cui il confronto non conduce a nessun esito) e casi di pareggio.
Il fatto che l’esito di questa nuova strategia sia la sospensione del giudizio può sembrare positivo per un dialeteista.

Per certi versi, la sospensione del giudizio si presenta come una reazione spontanea e pre-teoricamente attraente.
Il problema è che accettare questo approccio ha conseguenze gravi per il dialeteismo.
Infatti, simili casi di pareggio delle evidenze si hanno tipicamente proprio nelle dialeteie, che risulterebbero così non più asseribili.
Ne seguirebbe che le dialeteie, pur essendo sia vere che false, non andrebbero comunque asserite.
In questo modo uno dei tratti più tipici del dialeteismo si perderebbe.
Per ovviare a questo esito radicale, il dialeteista potrebbe proporre di emendare ulteriormente la norma che regola il rifiuto in questo modo: Rifiutare.

Un soggetto dovrebbe rifiutare p se c’è evidenza della sola non-verità di p.

La differenza con Rifiutare* è che Rifiutare chiede che vi sia evidenza che p sia solo non vera.
Il ché significa che l’evidenza che p sia non vera non sarebbe sufficiente a legittimare il rifiuto di p.
Affinché p sia rifiutabile, dovrebbe esserci evidenza che p sia solo non vera.
Più in generale, in un dilemma ci sono due enunciati α e β, tali che ø¬(α ∧ β), e .

In particolare, un dilemma è detto razionale quando nella situazione appena descritta l’obbligo non è di natura etica, o di altro tipo, bensì è imposto dalla razionalità.

Ora, un punto importante da sottolineare è che «[a] dilemma is not a contradiction, of the form Ø and ¬Ø» (Priest, 2002, p. 11). Priest fa l’esempio del paradosso dell’irrazionalità, che classifica proprio come dilemma razionale.
Sia ρ l’enunciato:(ρ) È irrazionale accettare ρ
È possibile dimostrare che ρ dà luogo ad un dilemma razionale.
Dimostrazione:
Sia B l’operatore di credenza «Credere (accettare) che» e si rappresenti «È irrazionale che» con I.

L’enunciato ρ diventa IBρ. Si assume lo schema (P): IB(α ∧ IBα) per ogni α.

A questo punto, si procede nel modo seguente:

IB (ρ ∧ IBρ)
IB (ρ ∧ ρ)
IB
(ρ)
ρ

Assumendo che IBα ⊢ جBα e che se ⊢ α allora ⊢Ø, otteniamo جBρ e Ø, che insieme a ج(Bρ ∧ ¬Bρ) danno luogo al dilemma.

Nel caso di ρ, la razionalità richiederebbe di fare una cosa impossibile.
Nessuno (tantomeno un dialeteista) può escludere a priori l’esistenza di tali dilemmi:


Chiediamoci: il paradosso del diniego è un caso di dilemma razionale?
L’enunciato D consente di costruire un tale dilemma.
Indichiamo con 𝒜 l’operatore di asserzione, che sta per «Asserire che», e con 𝒟 l’operatore di diniego, che sta per «Denegare che».
Ora, secondo la visione di Priest, l’asserzione e il diniego sono necessariamente esclusivi, ovvero ج(𝒜D ∧ 𝒟D).
Tuttavia, abbiamo dimostrato che D è sia asseribile che denegabile.
In quanto asseribile, la razionalità ci impone di asserire D, ovvero Ø𝒜D.
In quanto denegabile, la razionalità ci impone di denegare D, ovvero Ø𝒟D.
Dunque, il dilemma è servito.


Tuttavia, questo argomento e il paradosso del diniego sono due cose distinte.
Certo, si può sostenere a rigor di logica che Il paradosso del diniego non sia un dilemma: è un argomento che conduce ad una contraddizione tout court, e non un argomento che conduce a fare qualcosa di impossibile.
Dunque, mentre il dilemma razionale derivabile da D può essere accettato da Priest come «fact of life», lo stesso non può dirsi per il paradosso del diniego, che esige una risposta differente dal dialeteista:
è possibile formulare dei casi paradossali che minacciano la legittimità del dialeteismo.
Rispetto a questa situazione, il dialeteista può tentare almeno due contromosse: raffinare le nozioni pragmatiche di cui fa uso, oppure ammettere l’esistenza di dilemmi razionali, mostrando che il paradosso del diniego è proprio un caso dilemmatico.
Nel primo caso, se si sceglie il raffinamento suggerito da Priest, la conseguenza è un’asimmetria delle nozioni di asserzione e diniego (di accettazione e rifiuto) che riteniamo inaccettabile sulla base della nostra pratica ordinaria della razionalità.
Se, invece, si va nella direzione di un raffinamento della nozione di buona evidenza, bisogna mostrare che sia sempre possibile ordinare strettamente le evidenze in funzione del loro valore: un’opzione difficilmente sostenibile, come mostrato dall’esempio del mentitore rinforzato.
Nel secondo caso, la nozione di dilemma razionale definita da Priest non si applica al paradosso del diniego, la cui conclusione è una contraddizione e non una richiesta di svolgere un’azione impossibile.
In conclusione, se il dialeteista vuole insistere nel difendere la sua posizione sembra sia chiamato a fornire una risposta più convincente rispetto a quelle sin qui esaminate.
L’esposizione adottata è stata presa in prestito dal testo del libro sul dialeteismo, che forse è l’unico sistema inferenziale che può essere adottato per cercare di capire le dinamiche di scelte paradossali.

note di redazione:

Per il dialeteismo ci sono contraddizioni vere.
Questa concezione filosofica ha assunto una forma chiara e definita a partire dal lavoro
del filosofo e logico Graham Priest – uno dei suoi padri fondatori, nonché uno dei suoi più
strenui difensori.

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